Leggere certe affermazioni nell'articolo di Sandro Viola (fatto sparire ad arte dagli archivi web di Repubblica) non mi sorprende affatto. Lui è un campione mondiale nel suo genere. E, del resto, perché mai dovrei sorprendermi per uno che ha scritto cose anche peggiori, soprattutto parlando di ebrei e Israele?
Buona lettura.
D’un uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni
Ottanta, dal suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla
mafia, si vorrebbe dire tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di
trovarsi nella pessima compagnia di certi suoi detrattori, non si vorrebbe
dirne male. E tuttavia, da qualche tempo sta diventando difficile guardare al
giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato.
Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato
da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente
dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle
pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della
vita italiana — a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente
della Repubblica —, spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera, con
il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i conduttori di «talk-shows», con
gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono
quotidianamente, nei giornali e alla televisione, con le loro fumose e
insopportabili logorree.
Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei postì di vertice del
ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici
componenti del carrozzone pubblicistico italiano. Artìcoli, interviste, sortite
radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da
poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo accattivante, un titolo metà
Sciascia e metà «serial» televisivo, «Cose di cosa nostra», che con il suo suono
leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che ai cadaveri
seminati dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte
di quella scalcinata compagnia di giro degli autori di «instant books», degli
«opinionisti al minuto», dei «noti esperti», degli «ospiti in studio», che sera
dopo sera, a sera inoltrata — quasi un «memento mori» —, s’affacciano dagli
schermi televisivi.
Né il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del
crimine mafioso in particolare come giustificazione di tanti interventi. Certo,
ci sono materie in cui la parola va data al «noto esperto»: la gastronomia,
poniamo, il giardinaggio, il salvataggio dei monumenti. Nulla osta, infatti,
acché queste materie vengano trattate in tutta libertà, col più esplicito dei
linguaggi. Ma parlare di crimine quando si ricopre un’altissima carica
nell’amministrazione della giustizia, è diverso.
Intanto, si pone il problema formale della compatibilità tra la funzione
nell’apparato statale e l’attività pubblicistica. E poi c’è un elemento
sostanziale. Trattare la materia mafiosa quando si è, allo stesso tempo, un
magistrato coinvolto a fondo nella lotta alla mafia, impone un riserbo.
Costringe, se non proprio all’evasività, a discorsi generici. Infatti, dal dr.
Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli, ricaverà quasi
sempre molto poco. Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non
può certo essere detto interamente; e quello che pensa — se appena l’argomento è
un po’ delicato —, va detto con estrema cautela.
Il risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quanto mai
nebulose. Così, qualcuno penserà che egli non sa niente di niente sulla
criminalità organizzata, un altro crederà che lancia messaggi trasversali, un
altro ancora riterrà che ciurla nel manico, un ultimo sospetterà che non sa
esprimersi. E dunque che senso può avere il pronunciarsi (come il
giudice Falcone fa così di frequente), quando il decoro della funzione
giudiziaria, gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono
giustamente d’essere troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle
segretarie di redazione del Tg2 e del Tg3 che telefonano per organizzare una
trasmissione, «Grazie, ma sono occupato»?
Beninteso, rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio al
«ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto, di giudizi
pontificali pre-imballati che invadono l’etere», sarebbe più pertinente in un
altro paese che non l’Italia. In Italia, si sa come stanno le cose. Il primo a
violare giornalmente ogni obbligo di riserbo, di misura, di rispetto per la
propria funzione, è il primo cittadino della Repubblica. E di fronte a tanto
disprezzo delle regole da parte di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio,
illustrando le virtù della discrezione e della compostezza, prendersela col dr.
Falcone può risultare ozioso.
Ma è il passato del giudice Falcone, che induce alla critica. Non lo
si tirerebbe in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a
far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine
dell’«Unità», ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con
cui egli svolse i suoi incarichi alla Procura di Palermo, la stima che suscitò
in tanti di noi, costringono ad esprimere uno stupore, una riserva, sull’eccesso
di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte della sua
carriera. Perché nessuna regola o consuetudine prevede che i magistrati tengano
una «rubrica fissa» sul crimine. Perché nessun paese civile ha mai lasciato che
si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica. E dunque non si
capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di
«esperto in criminalità mafiosa», non ne faccia la sua professione definitiva,
abbandonando (questo sì, questo sarebbe inevitabile) la magistratura.
Qualcuno mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero un
loro scopo, peraltro apprezzabile: quello d’illustrare, propagandare, i due
organismi varati recentemente per combattere meglio la mafia, la cosiddetta
Superprocura e la Dia. Personalmente, considero la Superprocura e la Dia due
misure sensate (e che mi auguro risultino efficaci), mentre mi sfuggono le
ragioni di chi invece le avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli
Affari penali avrebbe altro modo che non il presenzialismo di cui s’è detto. Due
interviste all’anno — chiare, circostanziate — sarebbero infatti più che
sufficienti.
Quel che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe
più placarsi con un paio d’interviste all’anno. La logica e le trappole
dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a
trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine,del
tutto equilibrati. L’apparire, il pronunciarsi ingenerano ad un certo momento
come una «dipendenza», il timore lancinante che il non esibirsi sia lo stesso
che non esistere. E scorrendo il libro-intervista di Falcone, «Cose di cosa
nostra», s’avverte (anche per il concorso d’una intervistatrice adorante)
proprio questo: l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a
celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei
guitti televisivi.
E, si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così
si spiegano le melensaggini di «Cose di cosa nostra». Frasi come: «Questa è la
Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere»; oppure: «Al tribunale
di Palermo sono stato oggetto d’una serie di microsismi…»; oppure ancora: «Ho
sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso e non
m’erano necessarie particolari illuminazioni per capire che la mafia era una
organizzazione criminale». Dio, che linguaggio.
A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre «
particolari illuminazioni»: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un
valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.
(Da Repubblica del 9 gennaio 1992, si ringrazia l'Emeroteca Tucci di Napoli)
